Molti associano l’inverno all’immobilità.
Si
pensa alla stagione buia come a qualcosa di uggioso, noioso, abitato
da corte giornate e lunghi crepuscoli, vestito in grigio nebbia e
intinto nella pioggia sino a disfarsi in una melanconica piattezza, in
un’inesausta attesa di nuovi fiori, colori, caldo e sole, spiaggia,
mare….
Si, certo, c’è la neve, a
volte. Quella piace, con la sua attitudine a vestire ogni cosa, a
lisciare e pareggiare, attutire e placare, incantare…Si, la neve è un
grande incanto disteso sulla cruda realtà della stagione “morta”.
Peccato che proprio in ragione della sua purezza ogni minima impurità su
di essa risalta come un paffuto scarabeo in un piatto di ricotta,
peccato che la sua corruzione vesta il grigio ed il nero esaltandoli
ancor di più di quanto già non avvenga normalmente.
Ma non v’è nulla di morto, nella stagione di Alban Arthuan.
E’
nel cuore del gelo, tra le braccia di Madre Terra, spesso in una tana
scavata sotto le radici di imponenti Antichi, che l’orsa dona al mondo i
suoi cuccioli e comincia a nutrirli. Escono dall’utero della Piccola
Madre ed entrano nell’utero della Grande Madre, ove crescono sino al
disgelo, sino al risveglio del mondo esterno, che li accoglie nella loro
seconda nascita.
Questo è
l’inverno, questo è il tempo dell’attesa, della piccola morte che
nasconde la nuova vita che cresce, il tempo del rinnovamento più
profondo. Tempo di radici, di semi, di gemme.
Come
si può parlare di stagione morta? Forse che una giovane donna, nel
pieno della gravidanza, è morta perché non danza come le sue sorelle? O è
forse doppiamente viva, perché custode del futuro nel suo grembo? Non è
forse questo un tempo di magia, di suprema creazione, di armonia di
maschile e femminile fusi nel dono della nuova incombente esistenza?
E’
vero che la notte più lunga è prima dell’alba. E’ vero che nel profondo
e interminabile buio del Solstizio è inevitabilmente racchiusa la
rinascita. Più a fondo non s’immergerà il Sole, e la fiamma invitta
tornerà a salire i gradini che conducono al bacio del fuoco di Imbolc.
Forse
è solo una questione di apparenze. Se passando guardi un uomo seduto a
fissare un grande campo incolto, puoi essere indotto a pensare che stia
oziando, vagheggiando di ricordi sottili come fili di ragno. Ma nella
mente di quella persona invece in quel momento è in corso un progetto
che durerà generazioni, che vedrà sorgere una casa, un bosco, che vedrà
campi arati, coltivati, raccolti, lasciati a maggese nella ruota del
tempo, delle stagioni, della rigenerazione. Quell’uomo sta vedendo mille
germogli farsi alberi , fiorire, dar frutto. L’immobilità del suo corpo
è bilanciamento al vortice della sua mente che sogna, immagina,
traduce, pianifica, scarta, sceglie, progetta.
Tutti
noi percorriamo un viaggio, più o meno consapevole, più o meno nitido,
con a volte una memoria della strada percorsa in altre precedenti
esistenze, con porte che si aprono sul cammino che verrà, per chi sa
leggere segni e messaggi. Qualcuno corre, qualcuno arranca, tanti
guardano dritto innanzi a sé e procedono senza deviazione alcuna.
A
me viene da pensare che ogni stagione ha il suo passo e che se vogliamo
essere in armonia con il tutto è utile armonizzare il nostro passo al
tempo che attraversiamo. E questa stagione aiuta a tenere un cammino più
attento a quel che ci circonda. Ci concede il tempo di vedere nel
profondo, di assimilare l’essenza di ciò che è e distinguerla da ciò che
appare. Questa stagione, più di altre, insegna.
Così
mi viene spontaneo pensare che la danza della vita, nel suo alternarsi
di ritmi, mantiene perpetuo il movimento. Anche in questo tempo,
intreccia geometrie sacre fatte di passi calzati di lana e cuoio, che
disegnano nella neve mandala d’emozioni destinati a scolpirsi nel gelo,
che sussurrano respiri di nuvola che nascondono canti propiziatori a
preservare, distillare, infondere futuro nel germe della vita già nata
ma che attende, paziente, di crescere.
Sia
danza e canto, dunque, il vostro essere nel tempo di Alban Arthuan.
Possa la benedizione del Mondo Bianco scendere e circondarvi di infiniti
cristalli, ognuno diverso, ognuno perfetto, così come lo sono i nostri
corpi luminosi.
Possa il sorriso dei lunghi tramonti riempirvi il cuore, e la fiamma del vecchio ceppo di quercia scaldare le vostre mani.
La felicità, non è mai abbastanza.
(da una nota di Corrado Arth Cagnazzi sulla sua pagina Facebook - lo ringrazio per avermi permesso di pubblicare qui il suo scritto)